Gli Studi per la Pace (Peace Studies)

Gli Studi per la Pace si basano sulla premessa che per costruire la pace sia  necessario de-costruire la guerra. Ciò che preoccupa, dunque, non è il conflitto in sé quanto piuttosto una sua degenerazione in chiave violenta. Se, infatti, è vero che il conflitto è inevitabile, la strada della violenza può e deve essere evitata.

E’ essenziale chiarire il senso della parola “pace”, anche attraverso il suo opposto, individuato nella violenza, piuttosto che nella guerra. Uno studio critico della violenza è fondamentale all’interno di un discorso scientifico sulla pace.

Questo discorso è molto ampio, perché involge la violenza diretta (violenza fisica, palese, ma anche forme più sottili di violenza, come  l’isolamento, l’emarginazione, il non riconoscimento dell’altro a causa della sua diversità etnica, religiosa, sessuale, …) e la violenza strutturale (condizioni di oppressione e discriminazione che – anche in tempo di pace apparente –  sono insite nelle strutture sociali, economiche, politiche e culturali).

In sintonia con questa idea di pace che si oppone alla violenza, potremmo definire cultura di pace una cultura della convivialità e della condivisione, fondata sui principi di libertà, giustizia e democrazia, di tolleranza e solidarietà. Una cultura che rifiuta la violenza, cerca di prevenire i conflitti all’origine e di risolvere i problemi attraverso il dialogo ed il negoziato. Infine, una cultura che assicura a tutti il pieno godimento di tutti i diritti e dei mezzi per partecipare pienamente allo sviluppo endogeno della società.

In questa accezione, la latitudine dell’idea di pace è evidentemente molto ampia e coinvolge la società nel suo complesso, a livello locale ed a livello internazionale. Disuguaglianze, sviluppo e sottosviluppo, povertà, sostenibilità, convivenza fra culture e religioni diverse, sono tutti aspetti essenziali di un discorso sulla pace. Una pace declinata, per usare la terminologia di Galtung, in termini di PACE POSITIVA.

La motivazione principale della nascita degli Studi per la Pace, come settore di studio e di intervento sul conflitto ben definito, è in origine quella di scongiurare una guerra totale, considerata come il frutto di scelte umane e, pertanto, evitabile. E difatti il focus iniziale della nascente disciplina fu proprio quello del disarmo.

Le specificità del settore sono state raggruppate da Paul Rogers & Oliver Ramsbotham (“Then and Now: Peace Research Past and Future, Political Studies, XLVII, 1999, pp. 740-754 – Versione italiana – a cura di Valentina Bartolucci) in sette punti:

1) la propensione a focalizzarsi sulle cause profonde della violenza diretta e a esplorare modi per superare le disuguaglianze strutturali, promuovendo relazioni basate sull’uguaglianza e la cooperazione sia fra le collettività umane che a loro interno;

2) la necessità di un approccio interdisciplinare, vista la natura multifattoriale dei conflitti violenti;

3) la ricerca di modi pacifici per affrontare dispute e di modalità di trasformazione non violenta di situazioni violente, presenti o future;

4) la predilezione per analisi multi-livello che studino l’individuo, il gruppo, lo Stato e le relazioni tra Stati, nel tentativo di superare la tradizionale distinzione tra la dimensione “interna” (guerra civile) ed “esterna” (guerra tra Stati) vista come inadeguata ad analizzare i modelli prevalenti di conflitto;

5) l’adozione di un approccio globale e multiculturale, che identifichi le fonti della violenza a livello globale, regionale e locale e si nutra di concezioni di pace e trasformazione sociale non violenta derivanti da tutte le culture;

6) la visione dello Studio della Pace come sforzo non solo analitico ma anche normativo;

7) la stretta relazione dello studio teorico con la ricerca empirica.

Le aree tematiche nelle quali gli Studi per la Pace possono svilupparsi sono dunque vaste e complesse.